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Normativa di riferimento
1.
La "tutela" del lavoro femminile agli inizi del secolo: nel 1902 la prima
previsione del congedo di maternità (legge 19.6.1902 c.d. legge
Carcano)
2.
Il Regio Decreto legge 22 marzo 1934 n. 654
3.
L'art. 37 della Costituzione
4.
Un primo intervento organico a tutela della maternità: la legge
860/1950
5.La
normativa attualmente vigente: legge 1204/1971
6.
L'attuazione di alcune direttive CE in materia di tutela delle lavoratrici
madri che allattano
7.
Alcuni esempi di tutela delle lavoratrici madri che allattano nella contrattazione
collettiva
Premessa
Per quanto abbia
ad oggetto la legislazione italiana a protezione delle lavoratrici madri
che allattano, si premette fin d'ora che la presente esposizione non
potrà prescindere dalle tappe fondamentali di evoluzione della
disciplina nazionale a tutela delle donne lavoratrici indipendentemente
dalla loro condizione di madri.
1.
La "tutela" del lavoro femminile agli inizi del secolo: nel 1902 la
prima previsione del congedo di maternità (legge 19.6.1902 c.d.
legge Carcano)
Fino ai primi
del Novecento in Italia il lavoro femminile, per quanto ormai costituisse
una realtà in espansione, non era disciplinato da alcuna legge.
Il dibattito
parlamentare per il varo di una legge che contenesse delle norme che
garantissero la salute e l'incolumità delle donne lavoratrici,
iniziato già alla fine dell'Ottocento, non riusciva a convogliare
gli opposti interessi verso l'approvazione di un testo di legge.
Solo nel giugno
del 1902 veniva approvata la legge n. 242 c.d. legge
Carcano (dal nome del ministro presentatore del disegno di legge) che
dettava norme, seppur minime nei contenuti, a tutela delle donne lavoratrici.
La legge 242/1902
vietava alle donne di qualsiasi età i lavori sotterranei ; limitava
a dodici ore l'orario massimo giornaliero prevedendo un riposo di due
ore ; vietava, ma solo alle donne minorenni, il lavoro notturno .
La tutela che
la legge garantiva alle lavoratrici madri si sostanziava nella introduzione
del divieto di adibire le puerpere al lavoro "se non dopo trascorso
un mese da quello del parto" . In via eccezionale esse potevano
riprendere il lavoro anche prima di suddetto termine "ma in ogni caso
dopo tre settimane almeno" e sempre che un certificato dell'ufficio
sanitario del Comune attestasse che le condizioni di salute della donna
era tale da permetterle di compiere, senza pregiudizio il lavoro
nel quale intendessero occuparsi.
Nessun riposo
o riduzione di orario veniva invece prevista per il periodo immediatamente
antecedente il parto.
Niente disponeva
la legge in ordine alla retribuzione cui avevano diritto le lavoratrici
madri durante il "congedo di maternità"; solo nel 1910 con la
legge n. 520 venivano istituite le casse di maternità con
la funzione di erogare alle lavoratrici madri durante il periodo di
astensione obbligatoria dal lavoro una prestazione economica di carattere
assistenziale, fissata in cifra predeterminata e non ragguagliata al
salario.
L'art. 10
della legge 242/1902 disponeva che nelle fabbriche dove erano impiegate
donne, il datore di lavoro avrebbe dovuto permettere l'allattamento
"sia in una camera speciale annessa allo stabilimento, sia permettendo
alle operaie nutrici l'uscita dalla fabbrica nei modi e nelle ore che
stabilirà il regolamento interno".
I datori di lavoro
che impiegassero almeno cinquanta donne avevano l'obbligo di istituire
la camera speciale di allattamento.
Il tempo impiegato
dalla lavoratrice per allattare i figli era comunque distinto dai riposi
intermedi previsti in funzione della durata dell'orario di lavoro.
L'art. 13 sanzionava
la violazione di tali disposizioni con un'ammenda da 50 a 500 lire.
La legge sotto
questo aspetto è senz'altro innovativa in quanto mostra attenzione
nei confronti della necessità per le lavoratrici madri di provvedere
direttamente all'allattamento dei figli. Certo l'aver demandata la determinazione
della durata e le modalità di godimento dei riposi per allattare
al regolamento interno alle aziende lasciava un ampio margine di discrezionalità
ai datori di lavoro, ma, di fronte al precedente assoluto vuoto normativo,
il passo avanti risulta essere notevole.
Nel 1907 la legge
n. 416 estendeva il divieto di lavoro notturno alle donne di qualsiasi
età, anche se le eccezioni erano numerose e limitavano la portata
innovativa della norma.
Nel 1919 la legge
1176 segnava una tappa decisiva nella emancipazione delle donne prevedendo
la loro ammissione a coprire tutti i pubblici impieghi esclusi soltanto
quelli che implicassero poteri pubblici giurisdizionali, o l'esercizio
di diritti o potestà politiche nonché quelli attinenti
alla difesa militare dello Stato.
2.
Il Regio Decreto legge 22 marzo 1934 n. 654
Nel corso della
seconda metà degli anni Venti il problema della tutela della
maternità veniva affrontato mediante l'approvazione della legge
n. 2277 /1925 e 1168/1927, che nel 1934 confluivano nel Testo Unico
delle leggi sulla protezione ed assistenza della maternità ed
infanzia. Tali leggi istituivano un ente morale denominato "Opera
nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia"
avente la funzione di provvedere, per il tramite dei suoi organi provinciali
e comunali, all'assistenza delle gestanti e delle madri bisognose o
abbandonate e dei minori che versassero in condizioni di abbandono
; all'ONMI era concessa la facoltà di fondare istituzioni di
assistenza materna, casse di maternità, opere ausiliarie dei
brefotrofi per la tutela delle madri bisognose e abbandonate che allattano
la prole ed altre istituzioni a favore della maternità e dell'infanzia
.
L'ONMI nello
svolgimento di tali compiti era coadiuvata dalle Federazioni provinciali
nonché dai Comitati di patronato; in particolare a questi
ultimi era demandato il compito di organizzare ed attuare "l'assistenza
della maternità con ambulatori specializzati perché le
madri che allattano i loro figli e questi siano sorvegliati e curati,
nel periodo dell'allattamento e dopo il divezzamento" .
Il regio
Decreto Legge 22 marzo 1934 segna una tappa davvero importante nella
legislazione a tutela della maternità delle lavoratrici
in quanto regolamenta la materia in maniera compiuta nei suoi diversi
aspetti.
Dall'ambito di
applicazione della legge restano escluse le donne addette ai lavori
domestici "inerenti alla vita della famiglia", la moglie, le parenti
ed affini del datore di lavoro, le lavoranti a domicilio le donne occupate
negli uffici dello Stato, delle provincie e dei Comuni nonché
degli Istituti di beneficenza.
Il divieto di
adibire le donne al lavoro, e quindi il periodo c.d. di astensione obbligatoria
delle stesse dal lavoro, veniva esteso anche all'ultimo mese precedente
la data del parto ; l'astensione obbligatoria post partum veniva
fissata in sei settimane. Entrambi i periodi erano riducibili, in
via eccezionale, su richiesta della donna fino a tre settimane se il
certificato medico attestava che la prosecuzione del lavoro anche oltre
detti periodi può avvenire senza pregiudizio per le condizioni
di salute della donna .
Oltre al periodo
di astensione obbligatoria, era previsto un periodo di astensione facoltativa
dal momento che l'art.8 conferisce alla donna il diritto di assentarsi
dal lavoro "fin dall'inizio della sesta settimana antecedente la data
presunta del parto".
Il legislatore
del '34 si preoccupava di evitare facili elusioni della normativa a
protezione della maternità delle lavoratrici imponendo al datore
di lavoro un obbligo di conservazione del posto con riferimento al
periodo di assenza obbligata e facoltativa .
In caso di malattia
in conseguenza della gravidanza per cui la lavoratrice dovesse astenersi
dal lavoro oltre detti periodi, l'obbligo di conservazione del posto
è esteso ad un ulteriore mese .
Alla medesima
ratio è ispirato l'art. 11 che vieta il licenziamento della
donna, che continua dopo la presentazione del certificato di gravidanza
a prestare la propria opera, "durante il restante periodo di gestazione
in cui può essere addetta ala lavoro, se non in caso di colpa
costituente giusta causa di risoluzione del rapporto".
La legge in commento
dispone anche al fine di consentire alle lavoratrici madri di provvedere
all'allattamento al seno dei propri figli senza che da ciò derivino
conseguenze negative o pregiudizievoli per la loro posizione lavorativa.
Gli articoli
14 - 17 obbligano i datori di lavoro a dare alle madri "che allattano
direttamente i propri bambini" due periodi di riposo durante la giornata
per provvedere all'allattamento, per un anno dalla nascita del bambino.
La legge, a differenza
della precedente, fissa direttamente la durata dei riposi in un'ora
ciascuno con il diritto della donna di uscire dall'azienda, qualora
il datore di lavoro non abbia messo a disposizione un'apposita camera
di allattamento, fra l'altro obbligatoria in caso nell'azienda siano
occupate almeno 50 donne di età compresa fra i 15 e i 50 anni.
3.
L'art. 37 della Costituzione
Nell'excursus
storico dell'evoluzione della normativa italiana a protezione delle
lavoratrici madri non può essere omesso l'art. 37 della Costituzione
con il quale le donne videro finalmente affermata quella eguaglianza
nel lavoro che da sempre era stata loro negata .
L'art. 37 comma
I infatti dispone che "la lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità
di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore" ed ancora
"le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua
essenziale funzione familiare ed assicurare alla madre e al bambino
una speciale adeguata protezione".
La prima parte
del comma 1 rappresenta la trasposizione nel settore del lavoro del
più generale principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della
medesima Costituzione. Per la determinazione del trattamento economico
applicabile alle lavoratrici sarà quindi necessario far riferimento
al trattamento economico e normativo del lavoratore uomo che ricopra
e stesse mansioni.
Ai fini della
nostra esposizione rileva ancor più la seconda parte del I comma
che tutela la funzione familiare della donna lavoratrice. Questa
norma costituisce infatti il presupposto di tutti gli interventi normativi
successivi aventi l'obiettivo di sollevare la donna dal dilemma di dover
sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria vita familiare
e soprattutto gli interessi del nascituro. L'esame di tale normativa
costituirà oggetto dei successivi paragrafi.
4.
Un primo intervento organico a tutela della maternità: la legge
860/1950
4.1.Ambito
di applicazione della legge
La legge 26
agosto 1950 n. 860, come si evince dall'epigrafe "Tutela fisica
ed economica delle lavoratrici madri", si propone di assicurare
alle lavoratrici madri una tutela adeguata onde reprimere l'intento
dei datori di lavoro di licenziare o comunque penalizzare la donna lavoratrice
che affrontasse l'esperienza della maternità.
Rispetto alla
legge 654/34, la legge 860/1950 ha un ambito di applicazione più
vasto.
Essa infatti
si applica "alle lavoratrici gestanti e puerpere che prestano la loro
opera alle di privati datori di lavoro, comprese le lavoratrici dell'agricoltura,
(.), nonché a quelle dipendenti dagli uffici o dalle aziende
dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri
Enti pubblici e Società Cooperativistiche anche se socie di queste
ultime" .
Il compito di
disporre per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici addette
ai servizi familiari e delle lavoratrici a domicilio viene demandato
ad una legge successiva .
4.2. Divieto
di svolgimento di lavori pesanti durante il periodo di allattamento
(art.4)
Se la legge del
1934 vietava di adibire al trasporto e al sollevamento pesi le
donne in stato di gravidanza "nei tre mesi precedenti la data presunta
del parto", un notevole progresso si registra nella legge 860.
Tale divieto
infatti è sancito dall'art. 4 a decorrere "dalla presentazione
del certificato di gravidanza . e per tre mesi dopo il parto, e fino
a sette mesi ove provvedano direttamente all'allattamento del bambino".
In tale periodo
è prevista l'assegnazione delle donne ad altre mansioni.
La nuova norma
dimostra un maggiore attenzione a questa delicata fase della vita della
donna e dimostra una chiara consapevolezza di come lavori eccessivamente
logoranti possano pregiudicare la vita della donna e il buon esito della
gravidanza.
4.3. Divieto
di licenziamento
Fra le norme
di maggior rilievo della legge in commento, in quanto assolutamente
innovativa, l'art.3 sancisce il divieto di licenziare le lavoratrici
durante il periodo di gestazione e durante il periodo, pari ad otto
settimane dopo il parto, di astensione obbligatoria dal lavoro.
Il divieto
di adibire al lavoro le donne viene altresì sancito per i tre
mesi precedenti la data presunta del parto in caso di lavoratrici addette
all'industria, per le otto settimane precedenti per le addette ai lavori
agricoli e nelle sei settimane precedenti per tutte le altre categorie
.
Tali periodi
di assenza dal lavoro possono essere estesi dall'Ispettorato del lavoro
qualora le condizioni di lavoro o ambientali possano essere pregiudizievoli
alla salute della donna o del bambino .
Alla lavoratrice,
trascorse le otto settimane successive al parto, viene concessa altresì
la facoltà di assentarsi dal lavoro per un periodo di sei
mesi "durante il quale le sarà conservato il posto a tutti gli
effetti dell'anzianità" , senza però aver diritto all'indennità
giornaliera dell'80% della retribuzione previsto a carico dell'Istituto
nazionale per l'assicurazione contro le malattie o degli altri Istituti,
enti o case che provvedono all'assicurazione obbligatoria contro le
malattie per il periodo di assenza obbligatoria dal lavoro .
4.4. I periodi
di riposo per provvedere all'allattamento (art. 10)
Poche novità
si registrano con riferimento ai riposi garantiti alle lavoratrici madri
che provvedono direttamente all'allattamento dei figli.
Le norme della
legge 860 riproducono, potremmo dire fedelmente, il contenuto delle
disposizioni della legge precedente alle quali pertanto si rinvia.
Viene ribadito
l'obbligo per i datori di lavoro di istituire le camere di allattamento.
Tale obbligo
viene infatti a gravare su quei datori di lavoro che impieghino nella
loro azienda "almeno trenta donne coniugate di età non superiore
ai 50 anni". Rispetto all'art. 16 della legge 654/34 si rileva come
il numero cui è connesso l'obbligo sia stato ridotto da cinquanta
a trenta; è curioso osservare, però, come la legge 860
nel computo tenga conto solo delle donne coniugate, laddove la legge
precedente non distingueva in base alla sussistenza del vincolo matrimoniale.
Il datore di
lavoro può essere esonerato da tale obbligo dall'Ispettorato
del lavoro solo allorquando finanzi o partecipi alla istituzione
di asili nido interaziendali in luoghi convenienti per le lavoratrici
dipendenti . Le camere di allattamento e gli asili nido devono
essere mantenuti in modo da rispondere alle norme igieniche e in stato
di "scrupolosa pulizia" .
La violazione
di tali norme è sanzionata dalla legge con l'ammenda da lire
5.000 a lire 30.000 .
5.La
normativa attualmente vigente: legge 1204/1971
La legge 1204
del 1971, così come le precedenti, si propone lo scopo di assicurare
un'adeguata tutela alla donna lavoratrice predisponendo una serie
di rimedi assistenziali, economici e normativi che consentano alla donna
di continuare a svolgere il proprio lavoro senza compromettere
la cura dei figli e le connesse attività familiari.
La normativa
emanata negli anni Settanta si caratterizza per l'aver dato realizzazione
ai valori costituzionalmente garantiti della parità fra uomo
e donna, della funzione sociale della maternità e dell'inserimento
della donna nel mondo del lavoro.
La legge in commento
ripropone e modifica alla luce dei suindicati obiettivi, istituti già
introdotti e disciplinati dalla legge 654 del 1934 prima e dalla legge
860 del 1950 poi.
L'art. 3 ribadisce
il divieto di adibire le donne al trasporto e al sollevamento dei
pesi durante il periodo di gestazione e fino a sette mesi dopo il parto
ampliandolo più genericamente ai lavori pericolosi ed insalubri.
Il periodo
di astensione obbligatoria dal lavoro ha inizio 2 mesi prima del
parto (tre mesi in caso di lavori pregiudizievoli o gravosi) fino ai
tre mesi successivi . Detti periodi ai sensi di quanto disposto dalla
legge 903/1977 sono da considerarsi come vera e propria attività
lavorativa, anche ai fini della progressione della carriera, salvo diversità
di requisiti richiesti dai contratti collettivi.
Le Unità
Sanitarie locali , sulla base di accertamento medico, possono peraltro
disporre l'interdizione anticipata dal lavoro in caso di gravi complicanze
o preesistenti forme morbose che possano essere aggravate dallo stato
di gravidanza o qualora le condizioni di lavoro siano pregiudizievoli
alla salute della donna o del bambino.
Alla lavoratrice
viene conferito il diritto di assentarsi dal lavoro, una volta
terminato il periodo di interdizione obbligatoria, per un periodo, entro
il primo anno di vita del bambino, di sei mesi durante il quale ha diritto
alla conservazione del posto.
Con riferimento
alle disposizioni che garantiscano alla donna lavoratrice di provvedere
all'allattamento dei figli si registra, da un lato, una sostanziale
continuità con la disciplina previgente, dall'altro un cambiamento
del dato letterale che, forse oltre ogni aspettativa e immaginazione
del legislatore che ha emanato le norme, ha determinato un differente
ambito di applicazione delle stesse.
5.1. L'art.
10 della legge 1204/1971: il dato letterale a confronto con la previgente
normativa. L'interpretazione della ratio della norma e la
sua portata dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull'art. 8
L. 903/1977
L'art. 10 dispone
che il datore di lavoro debba "consentire alle lavoratrici madri,
durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche
cumulabili durante la giornata"; la donna ha diritto ad un solo
riposo quando l'orario di lavoro giornaliero è inferiore a sei
ore.
Prima di esaminare
le modalità di godimento di tali periodi di riposo conviene soffermarsi
appunto sul dato letterale di questa prima parte della norma.
La legge del
1950 concedeva il diritto a due periodi di riposo giornaliero "alle
lavoratrici madri ..che allattano direttamente i propri bambini . per
provvedere all'allattamento". Costituendo l'allattamento la "giustificazione"
del riposo, ove la madre non vi avesse provveduto direttamente, o per
scelta o per necessità, tale riposo non avrebbe potuto essere
goduto né da lei, né tanto meno da qualcun altro al suo
posto.
La nuova formulazione
elimina ogni riferimento all'allattamento, limitandosi a parlare di
periodi di riposo fruibili dalle lavoratrici madri.
La giurisprudenza
inizialmente sembrava, tuttavia, ferma nel ritenere che la finalità
della norma fosse quella di consentire alla madre di provvedere all'allattamento
diretto del bambino. Significativa ed esplicita in questo
senso è la sentenza della Pretura di Torino dell'8 giugno 1985
che, seppur emessa da un organo giudicante di merito, è espressiva
di un orientamento che, a quanto consta alla scrivente, era assolutamente
uniforme. Così il giudice di merito: "i riposi giornalieri ex
art. 10 della legge n. 1204 del 1971, di cui è esclusiva titolare
la lavoratrice madre, hanno specifico collegamento con le condizioni
post partum della donna entro l'anno dalla nascita del bambino; .. l'art.
10 si iscrive nell'area delle misure intese ad assicurare alla lavoratrice
madre adeguata protezione, ex art. 37 Cost.".
La conclusione
cui perveniva il Pretore di Torino faceva leva sul fatto che l'art.
7 della successiva legge 903 del 1977, tendente ad attuare la parità
fra uomo e donna laddove non sussistano presupposti oggettivi per un
differente trattamento, ha esteso al lavoratore padre il diritto all'assenza
facoltativa per sei mesi durante il primo anno di età del bambino
nonché il diritto ad assentarsi dal lavoro per i periodi di malattia
del figlio di età inferiore ai tre anni, laddove non garantisce
al padre il diritto alla fruizione dei riposi di cui all'art. 10 della
1204/71.
In tale contesto
si inserisce la sentenza della Corte Costituzionale del 21 aprile
1993 n. 179 . Essa non ha ad oggetto direttamente la
norma in commento, bensì quell'art. 7 della legge 9 dicembre
19977 n. 903 richiamato anche dal Pretore di Torino, che viene giudicato
"costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non
estende in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore in alternativa
alla madre lavoratrice il diritto ai riposi giornalieri previsti dall'art.
10 l. 30 dicembre 1971 n. 1202, per l'assistenza al figlio nel suo primo
anno di vita".
La Corte di Cassazione,
rimettendo la questione alla Corte Costituzionale, rilevava infatti
come che "i riposi giornalieri non sono strettamente connessi alle
esigenze dell'allattamento naturale ma agli interessi della prole e
sono fondati sulla stessa ratio sottesa all'astensione facoltativa post
partum" per la quale l'art. 7 l.903/77 prevedeva la fruibilità
anche da parte del padre; l'organo rimettente sollevava la questione
di legittimità costituzionale di questa norma con riferimento
agli artt. 3, 29 secondo comma, 30,31 secondo comma e 37 della Costituzione.
La Corte Costituzionale
valutava come fondata la questione, ritenendo che andasse risolta
tenendo in debito conto oltre che valori costituzionalmente garantiti
quali la tutela della maternità, dell'autonomo interesse del
minore, della parità dei diritti e doveri fra i coniugi, della
parità fra gli uomini e donne in materia di lavoro, anche la
moderna evoluzione della legislazione e della giurisprudenza in tema
di rapporti sociali nell'ambito della famiglia.
In particolare
ha ritenuto che "la natura e la finalità dei riposi giornalieri
previsti dall'art. 10 l.1204/1971 per le lavoratrici madri, nonostante
il testuale riferimento al << riposo della madre>> non corrispondano
più soltanto all'allattamento del neonato e ad altre sue esigenze
biologiche . ma a qualsiasi forma di assistenza del bambino" e che l'art.
7, riconoscendo anche la padre la facoltà di assentarsi per sei
mesi dal lavoro durante il primo anno di vita del bambino, abbia, da
un lato, sancito il superamento della concezione di una rigida distinzione
dei ruoli e dall'altro, evidenziato come un equilibrato sviluppo della
personalità del bambino richieda l'assistenza da parte di entrambe
le figure genitoriali anche per aspetti di carattere affettivo relazionale.
La Corte
concludeva dunque, in coerenza con l'evoluzione della normativa e della
giurisprudenza, che spettano anche al lavoratore padre, in alternativa
alla lavoratrice e con il suo consenso, il diritto ai periodi di riposo
giornaliero alle condizioni previste dall'art. 10 l.30 dicembre 1971
n. 1204 per assistere il figlio nel suo primo anno di vita. Per quanto
nel linguaggio comune e nella stessa giurisprudenza si continui a far
riferimento a tali riposi definendoli "riposi per allattamento", l'espressione
sembra, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, ridurre
la portata effettiva della norma.
La Corte Costituzionale
pur riconoscendo "la funzione essenziale della madre nei rapporti con
il bambino" ha ritenuto che "anche il padre è idoneo a prestare
assistenza materiale e supporto affettivo al minore".
Il bambino
in questa ottica assurge ad autonomo titolare di interessi, interessi
che devono essere tutelati non solo per quanto riguarda il lato propriamente
fisiologico, ma anche e soprattutto per l'aspetto affettivo relazionale
in modo che vengano a realizzarsi le condizioni per un adeguato sviluppo
della sua personalità.
5.2. I diritti
garantiti e gli oneri gravanti sulla lavoratrice
Come già
anticipato, la lavoratrice, secondo quanto disposto dall'art. 10 della
legge 1204/1971, ha diritto durante il primo anno di vita del bambino,
a due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il
riposo è uno solo quando l'orario giornaliero di lavoro è
inferiore a sei ore. Durante tali periodi la donna ha diritto ad
uscire dall'azienda.
Ogni riposo ha
la durata di un'ora salvo il caso in cui la lavoratrice voglia usufruire
della camera di allattamento o dell'asilo nido, eventualmente istituito
dal datore di lavoro nelle dipendenze dei locali di lavoro.
Le precedenti
normative in materia obbligavano infatti i datori di lavoro che impiegassero
almeno cinquanta donne nella propria azienda ad istituire nelle dipendenze
dei locali di lavoro una camera di allattamento o un asilo nido.
Tale obbligo
viene soppresso dalla legge 1204.
L'art. 34 disponeva
che continuassero peraltro ad applicarsi in via transitoria gli
artt. 11,12 e 13 della legge 860/50 a quei datori di lavoro che avessero
provveduto alla istituzione di tali strutture. Tale norma sottoposta
all'esame della Corte Costituzionale è stata ritenuta,
con sentenza n. 92 del 30 maggio 1977, illegittima in quanto
veniva a gravare questi datori di lavoro di un doppio onere (da un lato
le spese per la conduzione degli asili nido, dall'altro la maggiorazione
dello 0,10 % sui contributi ) che invece non sopportavano quelle aziende
che non avevano ottemperato all'obbligo della loro istituzione, che
erano state autorizzate a chiuderli o che alla data del 15 dicembre
1971 non li avevano comunque in funzione. Il contributo a carico del
datori di lavoro è stato peraltro soppresso dall'art. 3 legge
23 dicembre 1998 n. 448
L'art. 10 del
Regolamento di attuazione della legge 1204 (D.P.R. 25 novembre 1976
n. 1026) dispone che, "fermo restando che i riposi di cui all'art.
10 della legge devono assicurare alla lavoratrice la possibilità
di provvedere all'assistenza del bambino", la distribuzione dei riposi
nell'arco della giornata lavorativa deve essere concordata fra la lavoratrice
ed il datore di lavoro, "tenendo anche conto delle esigenze del servizio".
Il regolamento
fissa quindi i criteri che debbono guidare le parti nella fissazione
degli orari di godimento dei riposi di cui all'art. 10 della legge 1204.
L'incipit della norma evidenzia il carattere prevalente che viene
attribuito alle esigenze della donna e del bambino che in nessun
caso potranno essere compromessi, nemmeno da esigenze della produzione.
Queste ultime andranno tenute presenti nella determinazione degli orari
di fruizione dei riposi.
Laddove non sia
possibile addivenire ad un accordo che contemperi le opposte necessità,
la determinazione di tali orari viene demandata all'Ispettorato del
lavoro. Essendo stati tali ispettorati soppressi dagli artt. 5 e 6 della
legge 24 dicembre 1993 n. 537, le funzioni ad essi attribuite sono attualmente
esercitate, per effetto del D.M. 7 novembre 1996 n. 687, dalle Direzioni
Provinciali del lavoro.
L'ultimo comma
dell'art. 10 del regolamento prevede che non sia consentito alcun trattamento
economico sostitutivo. La norma è importante in quanto preclude
al datore di lavoro di prevedere incentivi economici tali da determinare
la lavoratrice a rinunciare all'allattamento e all'assistenza diretta
del bambino.
Se dunque il
datore di lavoro ha l'obbligo di concedere i riposi, la lavoratrice
ha l'onere di farne richiesta al datore di lavoro. In caso di mancata
richiesta, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto che alla lavoratrice
non spetti alcun risarcimento (Cass. 24 ottobre 1986 n. 6236).
Qualora, invece,
la lavoratrice abbia inoltrato regolare richiesta al proprio datore
di lavoro e questi illegittimamente le abbia precluso la possibilità
di godere dei riposi giornalieri sussiste in capo alla lavoratrice il
diritto al risarcimento del danno. Il criterio di liquidazione del danno
che la lavoratrice venga a subire in conseguenza di un divieto illegittimo
è stato dalla giurisprudenza di merito individuato nel compenso
orario normale goduto dalla lavoratrice in quanto esso rappresenta "la
misura minima, e unica e certa, del danno sofferto" in analogia con
quanto accade per il calcolo delle c.d. indennità sostitutive
.
5.3. L'adesione
allo sciopero e la determinazione dei riposi usufruibili
Il parametro
di riferimento per determinare il numero di riposi cui ha diritto la
lavoratrice è l'orario di lavoro giornaliero normale; i
riposi, come detto, devono essere fruiti nei periodi determinati d'accordo
fra la lavoratrice ed il datore di lavoro senza spostamenti o soppressioni
in relazione a particolari evenienze che modifichino o riducano la durata
dell'orario normale in quanto queste ultime potrebbero compromettere
l'equilibrio alimentare del bambino.
La giurisprudenza
è costante nel ritenere che il diritto a tali riposi e alla
correlativa indennità non sia escluso né limitato quantitativamente
dal fatto che la lavoratrice abbia partecipato ad uno sciopero effettuato
in ore diverse da quelle stabilite per i riposi stessi.
La lavoratrice
che, a seguito dell'adesione ad uno sciopero, presti lavoro effettivo
per meno di sei ore giornaliere ha comunque diritto ad usufruire di
entrambi i periodi di riposo qualora l'orario concordato per il loro
godimento non coincida con il periodo di adesione allo sciopero.
5.4. La conciliabilità
del trattamento CIG con il godimento dei periodi di riposo
Nel caso in cui
la riduzione dell'orario di lavoro sia conseguente alla messa in Cassa
integrazione della lavoratrice: la lavoratrice ha diritto ai riposi
solo se questi, così come concordati, coincidono con ore lavorative.
In questo caso la lavoratrice ha diritto alla relativa prestazione previdenziale,
più favorevole del trattamento di integrazione salariale, senza
però possibilità di cumularla con quest'ultima.
Diverso è
l'ipotesi di Cassa integrazione c.d. "a zero ore": in questo caso la
giurisprudenza ha ritenuto non ammissibile il godimento di tali
riposi. Essi infatti comporterebbero la sospensione dell'obbligo di
prestare l'attività lavorativa, laddove la stessa è già
integralmente sospesa per altre ragioni. Alla lavoratrice spetta dunque
solo il trattamento di integrazione salariale riferito però all'intero
orario contrattuale .
5.5. La durata
dei riposi in caso di parto gemellare
È interessante
richiamare una sempre più cospicua giurisprudenza di merito
che ritiene che in caso di parto gemellare la lavoratrice abbia il diritto
di usufruire di un numero doppio di ore dei riposi giornalieri nel
primo anno di vita dei bambini, a nulla rilevando che, in caso di
più figli, i periodi di riposo possano in concreto assorbire
completamente la prestazione lavorativa.
Gli organi giudicanti
hanno ritenuto che per stabilire il numero di periodi di riposo di cui
la lavoratrice madre (o il lavoratore padre) hanno diritto di usufruire
è necessario individuare un criterio certo ed obiettivo e l'unico
criterio indicato dal legislatore è quello legato alle esigenze
di vita del bambino: la lavoratrice ha diritto di usufruire di un numero
di permessi pari al numero dei bambini.
La circostanza
contingente che i permessi possano di fatto assorbire totalmente l'orario
di lavoro, annullando quindi completamente l'attività lavorativa,
non può indurre a sostituire l'interpretazione prescelta del
dato normativo posto che "deve essere pur sempre la norma a regolare
il fatto e non il fatto ad indurre modificazioni (giuridicamente infondate)
della norma" .
Poiché
infatti il criterio interpretativo letterale non consente di addivenire
a risultati univoci, la giurisprudenza ha fatto ricorso al criterio
teleologico. I riposi non sono più finalizzati soltanto all'allattamento
del bambino o ad altre sue esigenze fisiologiche, ma a garantire al
bambino qualsiasi forma di assistenza in quanto è nel suo primo
anno di vita che il bambino esige maggiormente il rapporto fisico e
psicologico con la madre o con il padre. E se la legge intende favorire
questo rapporto affettivo garantendo un'astensione dal lavoro, il
tempo utilizzabile per tale rapporto deve essere uguale per ogni figlio
in quanto questi sono i veri destinatari della tutela legislativa
.
5.6. L'illegittimità
della sospensione dalle mansioni superiori per la donna che si avvale
dei riposi
Il secondo comma
dell'art. 10 della lege 1204/1971 statuisce che i riposi debbano
considerarsi ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione
del lavoro. La disposizione ha trovato piena applicazione giurisprudenziale.
In particolare
è stata giudicata illegittimo la sospensione dalle mansioni superiori
disposta nei confronti della lavoratrice madre in orario ridotto per
la fruizione dei periodi di riposo per allattamento.
La sentenza del
TAR Lombardia dell'11 febbraio 1992 è così argomentata.
L'art. 8 del Decreto Ministeriale 28 aprile 1983 n. 178 prevede che
la revoca del conferimento delle mansioni superiori possa essere disposta
solo nel caso in cui il dipendente riporti una sanzione disciplinare
superiore alla censura, laddove il mantenimento dell'incarico possa
pregiudicare il prestigio dell'Amministrazione o il regolare andamento
dei servizio per insufficiente capacità o l'incaricato sia riconosciuto
inidoneo.
Tale quadro normativo
pertanto "non consente di individuare nella riduzione per legge dell'orario
lavorativo giornaliero una causa legittima di revoca dalle mansioni
superiori" in quanto i riposi per allattamento sono dalla legge
considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione
del lavoro e dunque non sono riconducibili a nessuna delle ipotesi elencate
dalla norma citata.
Il TAR
Lombardia concludeva quindi per l'accoglimento del ricorso presentato
dalla lavoratrice sospesa dalle mansioni superiori anche tenendo conto
conti di quella giurisprudenza nazionale e comunitaria secondo
la quale "i diritti riconosciuti alle lavoratrici e ricollegabili
alla loro maternità non possono essere utilizzati in loro danno
attraverso discriminazioni nell'attribuzione delle qualifiche e delle
mansioni, nonché nella progressione di carriera".
5.7. Il premio
di rendimento e la computabilità ai fini della sua determinazione
dei periodi di riposo
La Corte di Cassazione
con sentenza 10 settembre 1988 n. 5151 decideva per il rigetto di un
ricorso presentato avverso la sentenza del Tribunale di Gorizia che
aveva dichiarato illegittima la decurtazione del premio di rendimento,
applicata nei confronti di una lavoratrice che si avvaleva dei riposi
per allattamento, sulla base della disposizione del contratto aziendale
della medesima Cassa di Risparmio che dimezzava il premio di produzione
in caso "assenza" superiore a sei mesi (nel caso di specie la Cassa
di risparmio aveva infatti sommato alle altre assenze anche i riposi
fruiti dalla lavoratrice ai sensi dell'art. 10 l. 1204/71).
Il riposo fruito
dalla lavoratrice per provvedere alla assistenza e all'allattamento
del figlio non può essere considerato assenza non solo per la
"diversità ontologico funzionale" dei due termini, ma anche per
la diversa disciplina legislativa.
Dall'equiparazione
operata dal secondo comma dell'art. 10 legge 1204 /71, discende infatti
che la durata del lavoro non viene minimamente incisa dai permessi
per maternità e che la giornata lavorativa deve essere considerata
in ogni caso completa. La decurtazione del premio di rendimento
sulla base della norma interna aziendale era pertanto da ritenersi illegittima.
La statuizione
della Corte fissa un principio di notevole importanza in quanto la
scelta della lavoratrice di avvalersi o meno dei riposi giornalieri
deve essere assolutamente libera e non condizionata dalla prospettiva
di un eventuale perdita di vantaggi economici che l'azienda concede
ai dipendenti.
Sempre ispirata
al fine di non penalizzare la lavoratrice che si avvalga dei riposi
giornalieri sembra la sentenza del TAR Toscana del 3 luglio 1993 n.
529 secondo la quale alla lavoratrice non possono essere precluse prestazioni
aggiuntive di servizio e di "plus" orario con conseguente diritto ai
relativi compensi.
5.8. Il trattamento
economico
Per quanto riguarda
il trattamento economico relativo alle ore in cui la lavoratrice si
avvale dei riposi giornalieri, l'art. 10 della legge 1204 si limita
a dire che tali ore dono da considerarsi lavorative ai fini della retribuzione.
In proposito
è più specifico l'art. 8 della legge n. 903 del 1977
il quale dispone che per tali riposi è dovuta da parte dell'ente
assicuratore di malattia presso il quale la lavoratrice è assicurata
un'indennità pari all'intero ammontare della retribuzione relativa
ai riposi medesimi.
Tale indennità
deve essere anticipata dal datore di lavoro e portata dallo steso a
conguaglio con gli importi contributivi dovuti all'ente assicuratore.
Lo Stato predispone
gli apporti necessari per far fronte al suddetto onere.
Secondo la Corte
di Cassazione i periodi di riposo fruibili dalla madre,
e ora anche dal padre, per l'assistenza del bambino non attribuiscono
il diritto ad una contribuzione figurativa a fini previdenziali in quanto
non risultano essere assimilabili agli eventi indicati dall'art. 56
primo comma, lett. a) del R.D.L. 4 ottobre 1935 n, 1827. Questa norma
infatti richiama eventi quali il servizio militare, malattie ed infortunio,
la donazione del sangue, interruzione obbligatoria e facoltativa per
gravidanza e puerperio, integrazioni salariali, contratti di solidarietà,
disoccupazione e mobilità indennizzate, assistenza antitubercolare,
aspettativa per funzioni elettive e cariche sindacali che implicano
tutti una mancanza totale di prestazione lavorativa, con una conseguente
incidenza negativa sul piano retributivo e previdenziale.
Nel caso dei
riposi la lavoratrice è in grado di assolvere la propria obbligazione
lavorativa e si astiene dalla medesima per un esiguo periodo di tempo:
non ricorre uno stato di bisogno rapportabile a quello esistente nei
casi indicati dal R.D.L. 1827/35 dal momento che i lavoratori che usufruiscono
dei riposi giornalieri continuano a prestare la loro opera sia pure
per un orario ridotto e a ricevere quasi per intero la retribuzione
e i contributi .
Sempre in materia
di contribuzione la giurisprudenza di merito ha valutato
illegittimo l'operato del datore di lavoro che abbia calcolato l'imponibile
contributivo decurtandolo dell'indennità relativa ai permessi
di allattamento e determinandolo in misura inferiore ai minimali contributivi
.
5.9. Sanzioni
per l'inosservanza delle disposizioni
Le sanzioni che
la legge 1204 /71 prevede per la violazione del disposto dell'art. 10
non paiono certo di per sé sufficienti a scoraggiare i datori
di lavoro che volessero opporsi al godimento dei riposi giornalieri
per allattamento.
Il datore di
lavoro che violi il disposto dell'art. 10 è punito con la sanzione
amministrativa da lire un milione a lire cinque milioni.
5.10. La
tutela delle lavoratrici autonome
La legge 29
dicembre 1987 n. 546 reca norme in tema di indennità di maternità
per le lavoratrici autonome. L'art. 21 della legge prevede la corresponsione
alle lavoratrci autonome, coltivatrici dirette, mezzadre e colone, artigiane
ed esercenti attività commerciali di una indennità giornaliera
per i periodi di gravidanza e puerperio.
La misura di
tale indennità, da corrispondersi per i mesi antecedenti la data
del parto e per i tre mesi successivi, è prevista nell'80%
dela retribuzione minima giornaliera per le coltivatrici dirette,
colone e mezzadre.
Alle lavoratrici
autonome, artigiane ed esercenti attività commerciale la indennità
è corrisposta per i due mesi antecedenti la data presunta del
parto e per i tre mesi successivi, anch'essa determinata in misura pari
all'80% del salario minimo giornaliero.
Tale indennità
verrà corrisposta dall'INPS a seguito di apposita domanda in
carta libera, corredata da un certificato medico che attesti la data
presunta della gravidanza e la data presunta del parto.
6.
L'attuazione di alcune direttive CE in materia di tutela delle lavoratrici
madri che allattano
Con la legge
10 aprile 1981 n. 157 l'Italia ha ratificato la convenzione n. 136
dell'Organizzazione Mondiale del Lavoro che vieta di adibire le donne
in stato di gravidanza, accertato da un medico, e le madri nel periodo
dell'allattamento a lavori che comportino l'esposizione al benzene od
a prodotti contenenti benzene.
L'art.118A
del Trattato CE (attuale art. 138 secondo la numerazione
in vigore dal Trattato di Amsterdam) dispone che gli Stati membri si
adoperino per promuovere il miglioramento dell'ambiente di lavoro per
tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori. La medesima norma
prevede che per contribuire alla realizzazione di tale obiettivo il
Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione
e previa consultazione con il Comitato Economico e Sociale, adotti mediante
direttive "le prescrizioni minime, applicabili progressivamente",
ferma restando la possibilità per ciascuno Stato membro di mantenere
in vigore o di adottare normative che garantiscano una maggior tutela
ai lavoratori.
Il Consiglio,
in ottemperanza a tale disposizione, il 19 ottobre 1992 emanava la Direttiva
92/85/CEE concernente l'attuazione di misure volte a promuovere
il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici
gestanti, puerpere o in periodo di allattamento .
Il Consiglio,
in coerenza con il disposto dell'art. 15 della precedente direttiva
89/391/CEE secondo il quale i gruppi a rischio particolarmente
sensibili devono essere protetti contro i pericoli che più direttamente
li riguardano, ha considerato le lavoratrici gestanti, puerpere o
in periodo di allattamento "un gruppo esposto a rischi specifici",
per il quale si rendeva necessaria l'adozione di provvedimenti a protezione
della loro sicurezza e salute.
L'oggetto della
direttiva, individuato dall'art.1, è pertanto rappresentato dall'attuazione
di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della
salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo
di allattamento.
Al fine di valutare
i rischi per le lavoratrici che si trovino in tali condizioni e per
poter individuare le misure da adottare, i datori di lavoro dovranno
valutare la natura, il grado e la durata di quelle attività che
possano presentare un particolare rischio nell'esposizione ad agenti,
processi o condizioni di lavoro che possano compromettere la salute
della donna o del feto e delle quali la stessa direttiva, negli allegati
1 e 2 , fornisce un elenco piuttosto dettagliato seppur
non esaustivo. Dei risultati della valutazione dovranno essere informate
le lavoratrici direttamente e/o le loro rappresentanze .
Qualora dalle
valutazioni effettuate emergano un rischio per la sicurezza o la salute
della donna lavoratrice nonché ripercussioni sulla gravidanza
o l'allattamento, il datore di lavoro deve adottare le misure necessarie
per evitare l'esposizione della donna a tale rischio "modificando temporaneamente
le sue condizioni di lavoro e/o il suo orario di lavoro". Laddove questi
provvedimenti non siano oggettivamente o tecnicamente possibili, la
lavoratrice deve essere temporaneamente assegnata a d altre mansioni;
ove anche questa soluzione oggettivamente non risulti percorribile,
la donna dovrà essere dispensata dal lavoro durante tutto
il periodo necessario per la protezione della sua sicurezza o della
sua salute .
Le lavoratrici
gestanti ed in periodo di allattamento non saranno in alcun caso obbligate
a svolgere attività per cui la valutazione abbia rivelato il
rischio di esposizione pregiudizievole .
Il legislatore
comunitario prevede altresì che la normativa nazionale disponga
affinché le lavoratrici durante tale delicata fase della vita
non siano obbligate a svolgere un lavoro notturno, dovendo le stesse
essere adibite ad un lavoro diurno e, laddove ciò non sia possibile,
possano usufruire di una dispensa dal lavoro o di una proroga del congedo
di maternità .
Con riferimento
a quest'ultimo, la direttiva fissa il limite minimo in "almeno quattordici
settimane ininterrotte, ripartite prima e dopo il parto" in conformità
a quanto previsto dalle legislazioni nazionali .
Considerando
che il rischio di essere licenziate per motivi connessi al loro stato
potesse avere effetti dannosi sullo stato psicofisico delle lavoratrici
gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, l'art. 10 prevede un
divieto di licenziamento nel periodo compreso fra l'inizio della gravidanza
e il termine di congedo di maternità (tranne in casi eccezionali
non connessi a tale stato); il datore di lavoro qualora proceda al licenziamento
deve fornire per iscritto giustificati motivi.
Per consentire
alle lavoratrici di godere dei diritti indicati dalla direttiva, deve
essere garantito il godimento dei diritti connessi con il contratto
di lavoro, compreso il mantenimento di una retribuzione o il versamento
di un'adeguata indennità ; indennità che durante il congedo
di maternità deve assicurare redditi almeno equivalenti a quelli
che la lavoratrice otterrebbe in caso di interruzione della attività
per motivi connessi allo stato di salute, entro il limite di un massimale
eventualmente stabilito dalle legislazioni nazionali .
La legge 1204/71
conteneva disposizioni già in linea con la normativa comunitaria
del 1992. Nel 1996, comunque, l'Italia con il D. Lgs. 25 novembre
1996 n. 645 ha recepito la direttiva.
L'art. 3 del
decreto legislativo prevede che il divieto di adibire la donna lavoratrice
gestante, puerpera o in periodo di allattamento a lavori faticosi o
insalubri includa anche tutte quelle attività che comportino
il rischio di esposizione ad agenti e processi indicati nell'allegato
II . Prevede l'obbligo a carico del datore di lavoro di valutare
i rischi connessi alle attività che la lavoratrice svolge e di
informare le lavoratrici e i loro rappresentanti sui risultati delle
valutazioni effettuate. Se tale valutazione dimostri l'esistenza di
un rischio per la sicurezza e la salute della lavoratrice, il datore
di lavoro dovrà modificare temporaneamente le condizioni e l'orario
di lavoro.
Con Decreto
Legislativo 17 marzo 1995 n. 230 lo Stato Italiano ha dato attuazione
alle direttive EURATOM in materia di radiazioni ionizzanti. È
da tale normativa vietato adibire le donne che allattano ad attività
comportanti un rischio di contaminazione. La violazione della norma
testé citata comporta l'arresto da tre a sei mesi o l'ammenda
da tre ad otto milioni.
7.
Alcuni esempi di tutela delle lavoratrici madri che allattano nella
contrattazione collettiva
Anche la contrattazione
collettiva cerca di prevedere misure che garantiscano ala lavoratrice
madre di provvedere all'allattamento diretto del figlio. Cerchiamo di
vedere qualche esempio.
Il contratti
collettivi Nazionali di lavoro del personale medico e non con qualifica
dirigenziale dispongono, fra l'altro, che "per tutta la durata del
periodo di allattamento se naturale, qualora sia accertata una situazione
di danno o pericolo per la salute della lavoratrice, fatte salve le
disposizioni di legge in materia, si provvede al provvisorio mutamento
di attività delle dirigenti interessate che comporti minor aggravio
psicofisico".
Il C.C.N.L. che
regola i rapporti di lavoro tra tutte le aziende del terziario,
della distribuzione e dei servizi appartenenti ai settori dell'alimentazione
, dei fiori, piante e affini , delle merci d'uso e prodotti industriali
, degli ausiliari del commercio, di servizi alle imprese e servizi alle
persone nel titolo quindicesimo disciplina l'astensione dal lavoro nel
periodo di gravidanza e puerperio, i permessi per provvedere alla assistenza
del bambino.
Durante il periodo
di gravidanza e puerperio la lavoratrice ha diritto di astenersi dal
lavoro per i due mesi precedenti la data presunta del parto, per i tre
mesi successivi nonché per un ulteriore periodo (facoltativo)
di sei mesi . La lavoratrice ha diritto alla conservazione del posto
per tutto il periodo di gestazione e fino al compimento di un anno di
età del bambino ; la lavoratrice licenziata in violazione a tale
divieto ha diritto ad essere reintegrata nel posto di lavoro dopo la
presentazione entro 90 giorni dal licenziamento di un certificato che
attesti l'esistenza all'epoca del licenziamento delle condizioni che
lo vietavano. Durante il periodo di assenza obbligatoria la lavoratrice
ha diritto ad una indennità corrisposta dall'INPS, ma anticipata
da datore di lavoro ( che poi la porterà a conguaglio con i contributi
dovuti), nella misura dell'80% della retribuzione; durante il periodo
di assenza facoltativa tale indennità si riduce al 30% della
retribuzione.
Il C.C.N.L. per
quanto riguarda i riposi giornalieri per provvedere all'assistenza del
bambino richiama sostanzialmente la disciplina dell'art. 10 della legge
1204/1971 per quanto riguarda la durata e il numero dei riposi cui la
lavoratrice ha diritto. Per detti riposi è dovuta dall'INPS un'indennità
pari all'intero ammontare della retribuzione. Il Contratto collettivo
in commento in applicazione della citata sentenza n. 179/93 della Corte
Costituzionale prevede esplicitamente che il diritto a tali riposi è
alternativamente riconosciuto al padre lavoratore subordinatamente però
all'esplicito consenso scritto da parte della madre. Il diritto ai riposi
non può essere esercitato durante i periodi in cui un genitore
goda già dei periodi di astensione obbligatoria o di assenza
facoltativa o quando, per altre cause, l'obbligo della prestazione lavorativa
sia interamente sospeso.
Il contratto
collettivo del personale del comparto "Ministeri" esclude dall'effettuazione
dei turni notturni le donne nel periodo di allattamento fino ad un anno
di vita del bambino.
Il Contratto
Collettivo Nazionale che regola i rapporti tra le aziende alberghiere,
i complessi turistico ricettivi dell'aria aperta, le aziende pubblici
esercizi, gli stabilimenti balneari, le imprese di viaggi e turismo,
i porti ed approdi turistici e il personale dipendente riproduce le
norme della legge 1204/1971 per quanto riguarda i periodi di astensione
obbligatoria e facoltativa, il divieto di licenziamento con obbligo,
in caso di illegittimo licenziamento, di ripristino del rapporto di
lavoro in caso. La misura dell'indennità dovuta per il periodo
di astensione obbligatoria dal lavoro è anche qui fissata nell'80%
della retribuzione, nel 30% per il periodo di astensione facoltativa.
Anche con
riferimento ai riposi giornalieri la disciplina è quella della
legge nazionale con la precisazione che l'indennità cui la lavoratrice
ha diritto è corrisposta dall'INPS ma anticipata dal datore di
lavoro nella misura pari alla retribuzione dei riposi medesimi.
Preparata
dall'avv.Celeste Lombardi in collaborazione con dott.Letizia Martini
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